C’è una tipica espressione anconetana che si usa quando si vuole rimandare al mittente una critica o un giudizio anche solo leggermente negativo di qualunque genere: sarai belo te! Non c’è bisogno né di traduzione, né di esempi. Questa espressione ben si adatta alle reazioni di molti alle valutazioni, anche solo parzialmente negative, in sede di valutazione individuale agganciata in sanità al processo di budget e alla retribuzione di risultato. In realtà di valutazioni negative se ne fanno ben poche, come vedremo tra qualche riga.
Se c’è una montagna che rischia di partorire un topolino è proprio il sistema della valutazione individuale delle Aziende in applicazione del decreto cosiddetto Brunetta del 2009. La carta è tanta, ma mentre sulla valutazione della performance organizzativa di dipartimenti ed unità operative in un modo o nell’altro (tra gli obiettivi dati dalla Regione alle Aziende e poi trasferiti alle unità operative ed ai dipartimenti e quelli contrattati a livello aziendale) la macchina “gira” (ma ci sarebbero da fare alcune –anche molte -osservazioni critiche sugli obiettivi di budget regionali e di conseguenza, aziendali), sulla valutazione individuale ci sono ancora una grande resistenza e passività (che in fondo sono la stessa cosa). Tutto il sistema nato con il Decreto Legislativo n.50 del 2009 nei fatti opera come un gigantesco apparato burocratico che incide pochissimo sul valore dei professionisti.
Se si va cercare qualche numero (la nostra passione) nelle Relazioni sulla Performance dei vari Enti del nostro Servizio Sanitario Regionale degli ultimi anni (questo sito ve lo consente), si vedrà che nella valutazione individuale di solito il personale sia dirigente che del comparto (non so perché, ma questa parola non mi piace) in circa il 90% dei casi raggiunge il 90% del risultato. In alcuni casi nell'area amministrativa si raggiunge il 100%. Qualcosa non torna.
Proviamo ad immaginare, invece, un percorso che parta da questo principio: la valutazione ci deve interessare perché mira ad aggiungere valore al contributo di ciascun professionista e attraverso questo si arriva a dare una assistenza di maggiore qualità ai cittadini. E diciamolo subito: i cittadini ne hanno bisogno perché problemi di qualità dell’assistenza ce ne sono molti. Dipende se si vogliono vedere. L’ipotesi è che così facendo sia l’atteggiamento dei valutati alla sarai belo te! e quello deresponsabilizzato dei valutatori possa essere progressivamente smontato.
Se vogliamo che il ruolo della valutazione sia quello di contribuire a promuovere il miglioramento (sia nella dimensione sanitaria che in quella economica) il punto di partenza della sua azione potrebbe essere quello di identificare le “cose da fare” per garantire sia migliori risultati di salute che un utilizzo migliore delle risorse usando nella definizione degli obiettivi il linguaggio della concretezza: ridurre le sofferenze evitabili e gli sprechi evitabili.
Partiamo dalle sofferenze evitabili. L’elenco potrebbe essere lunghissimo e ogni professionista dovrebbe essere consapevole di qual è la natura delle “sofferenze” che è suo compito ridurre o, quantomeno, provare a ridurre:
- infezioni associate all’assistenza: infezioni delle vie urinarie, polmoniti in pazienti in ventilazione assistita, polmoniti ab ingestis, infezioni legate al catetere venoso centrale, enteriti da clostridium difficile, infezioni della ferita chirurgica;
- lesioni da decubito;
- cadute;
- decadimento fisico e cognitivo nei pazienti anziani ospedalizzati;
- delirium post-operatorio;
- reazioni avverse ai farmaci;
- procedure invasive “futili” in pazienti da avviare a percorsi di palliazione;
- inadeguato controllo del dolore;
- complicanze e “errori” chirurgici;
- complicanze tromboemboliche;
- complicanze evitabili o “ritardabili” del diabete come la arteriopatia degli arti inferiori con conseguenti amputazioni minori e maggiori.
Questo elenco – assolutamente parziale - riguarda per così dire i possibili “danni collaterali” di un’assistenza erogata in modo non ottimale. Tutti fenomeni migliorabili visto che:
- vi è una forte variabilità tra le varie strutture nella loro diffusione;
- per la stragrande maggioranza di questi fenomeni esistono linee guida che forniscono tutti i riferimenti evidence-based che ne potrebbero ridurre la diffusione;
- quasi sempre su questi fenomeni può influire direttamente o indirettamente la carenza di personale (come pure la sua inadeguata preparazione) e/o la carenza di risorse tecnologiche e di materiali e/o le carenze strutturali in termini di spazi;
- è ragionevole affermare che l’azione dei professionisti e dei loro dirigenti potrebbe ridurre molto tali fenomeni e le sofferenze dagli stessi determinati;
- in moltissime situazioni un impegno mirato al contenimento di questi fenomeni ne ha determinato la riduzione a testimonianza che “qualcosa si può fare”.
Passiamo ora al problema degli sprechi evitabili, ovvero a quello delle risorse mal utilizzate. Anche in questo ambito i fenomeni che esemplificano questa dimensione più economica della inadeguata qualità della assistenza sono numerosissimi. Anche in questi casi i possibili miglioramenti hanno grossi margini di praticabilità:
- un utilizzo inappropriato e “in eccesso” di farmaci come testimoniato dai costi pro capite molto diversi tra le varie realtà territoriali e tra le varie strutture ospedaliere;
- un ricorso non selettivo agli accertamenti diagnostici (indicazioni inappropriate o sovra diagnosi);
- l’effettuazione di interventi con utilizzo di materiali a maggior costo in alternativa ad un approccio tradizionale a minor costo e pari efficacia;
- l’utilizzo non necessario di presidi ad alto costo (medicazioni avanzate);
- utilizzo inefficiente del blocco operatorio o delle tecnologie ad alto costo (come le macchine pesanti in radiologia).
Se riusciamo a portare nel sistema degli obiettivi di equipe ed individuali sofferenze e sprechi chiamandoli col loro nome, forse, si potrebbe rendere meno astratto tutto il sistema della valutazione.
Tre considerazioni finali.
La prima: ovviamente il peso del malfunzionamento del sistema in larga misura dipende da scelte fatte “sopra” (e a volte nonostante) gli operatori e di questo altri si debbono occupare e su questo altri debbono essere a loro volta valutati (quello che segue è anche meno di un menu degustazione):
- un prolungamento del ricovero ospedaliero per indisponibilità di soluzioni più appropriate e a minor costo a livello territoriale (sia residenziale che domiciliare);
- un ricorso eccessivo al pronto soccorso in carenza di risposte più adatte alle situazioni di minor impegno clinico;
- l’assenza di “servizi” dedicati a particolari situazioni come i centri diurni Alzheimer, le aree semi-intensive polispecialistiche in ospedale, gli ambulatori specialistici dedicati a particolari condizioni quali lo scompenso cardiaco, le broncopneumopatie croniche, ecc.
- la carenza di personale a disposizione rispetto ai carichi di lavoro ed alla complessità assistenziale dei casi in carico.
La seconda: anche l'area amministrativa è interessata dalla lotta alle sofferenze ed agli sprechi. Basta creare un collegamento tra i suoi obiettivi e quei problemi. Ad esempio, l'area risorse umane andrebbe valutata in base alla tempestività con cui fa fronte alla carenze di personale rispetto agli standard che la dotazione organica riconosce all'unità operativa interessata. Un 100% di raggiungimento del 100% dell'obiettivo segnala, è un mio sospetto, una carenza nella definizione degli obiettivi dell'area amministrativa.
La terza: lo so anche io che discore n'è fatica. Serve la traduzione? C'è persino su Wikipedia una voce sul dialetto anconetan!.
Per il finale vale la pena di tornare a Donabedian, uno dei numi tutelari della qualità in sanità. Per lui il segreto della qualità in definitiva è l’amore (per quello che si fa e per i pazienti che si assistono): “se hai amore allora puoi lavorare in modo da monitorare e migliorare il sistema" e (questo lo aggiungiamo noi) puoi vivere la valutazione individuale come una sfida appassionante.