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Sono convinto che se un dirigente o un operatore proponessero ai loro collaboratori/colleghi la domanda del titolo, in questa fase della nostra sanità correrebbero un rischio vicino alla certezza di essere guardati male o con sufficienza (che gli/le sarà preso oggi?). Anche a me una proposta  di quel tipo  sarebbe parsa come minimo strana, se non fosse che ieri il tema della gioia del lavorare in sanità era affrontato in un post del sito dell’Institute for Health Care Improvement (d’ora in poi confidenzialnente HCI), che già ci aveva ispirato a proposito dei leder cui oggi chiediamo umiltà e non eroismo (Elogio dell'umiltà nei leader della sanità).

Prima di andare al post (dal titolo “Applichiamo i principi di come si organizza una comunità per riportare gioia nel lavoro”, Applying Community Organizing Principles to Restore Joy in Work) ragioniamo solo un secondo su quello che di soliti chiamiamo (o sento chiamare) benessere organizzativo. Che sia un prerequisito del lavorare in qualità sembra scontato. Chi  non ha detto o non ha sentito centinaia di volte nel nostro mondo della sanità (marchigiana, ma non solo) che la risorsa umana è la più importante o che il capitale umano dell’Azienda o dell’Ospedale è quello che fa la differenza?  Purtroppo nella pratica non sembra proprio che le cose stiano così.

I siti Amministrazione Trasparente degli Enti Pubblici (tra cui le Aziende Sanitarie) purtroppo  non hanno più dal 2016 l’obbligo di pubblicare i dati sul benessere organizzativo interno e ciò rischia di non stimolare gli Enti del nostro SSN a raccoglierli. E se non li raccogli …. Dal nostro sito sono scaricabili gli ultimi dati sul Benessere organizzativo, ma solo in un caso (Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Ancona) sono aggiornati al 2017. In due casi i dati sono quelli di una indagine che l’Istituto Sant’Anna fece nel 2016 nell’ambito del rapporto convenzionale con la Regione Marche.

Se questi dati sul benessere organizzativo  (anche se vecchi) li andiamo a leggere abbiamo un quadro preoccupante che è quello che si può anche percepire solo parlando coi colleghi qualunque sia il loro ruolo. Lo stesso tasso di partecipazione a quelle indagini (sotto al 25%) la dice lunga sul clima che si respira. Ma questi tutti lo sanno, ma probabilmente non c’è il tempo per lavorarci.

E allora la gioia negli ambienti di lavoro è’ un lusso? E’ pretenzioso parlarne o addirittura irritante se a farlo è un pensionato seduto in panchina e fuori dalla mischia? La prima risposta di cuore a queste tre domande è: sì, sì e sì. Ma proviamo comunque a dare uno sguardo al post dell’IHI. La premessa del post è semplice: il burnout  sta raggiungendo proporzioni epidemiche nel settore sanitario. Se si riesce ad aumentare la gioia (joy) negli ambienti di lavoro dovrebbe diminuire il disagio causa di burnout e migliorare la qualità dell’assistenza. Tutto giusto, ma come si può rendere più gioioso un ambiente di lavoro? Una prima risposta sorge spontanea persino a me: innanzitutto accettando  che sia un obiettivo importante dell’organizzazione e quindi occcupandotene, quanto più il tuo ruolo di leader è rilevante.

Gli autori del post suggeriscono di applicare al tema del recupero (molti magari in base alla loro esperienza penseranno che non si può parlare di recupero perché in realtà non c’è mai stata) della gioia negli ambienti di lavoro i principi di come si organizza una comunità (Community organizing). Sì lo so, stiamo scivolando verso tematiche appunto sdrucciolevoli in cui il rischio di dire banalità come fossero perle è alto. Ma i principi e le tecniche per costruire e far crescere una comunità (tra cui una comunità professionale) non sono meno scientifiche di quelle normalmente alla base della pratica sanitaria. Ci sono dietro ricercatori, riviste, libri, esperienze, sperimentazioni che possono portare indicazioni utili a chi sul benessere organizzativo (meno impegnativo del termine gioia) vuole almeno provare a lavorare.

Secondo l’IHI ci sono quattro lezioni che le esperienze di Community organizing insegnano a proposito del recupero della gioia negli ambienti di cura (ma perché no: in qualunque  contesto organizzativo della nostra sanità). Vediamole.

Rifletti e fai riflettere sulla esperienza assistenziale e sul lavoro che si fa tutti i giorni (Know why you care).  La prima lezione è che per coinvolgere gli altri serve rispondere tutti assieme a due domande: “Cosa facciamo?” e “Perché dobbiamo farlo?”; in sintesi, dobbiamo capire e far capire il senso anche emotivo del nostro lavoro. Ad esempio, si suggerisce di condividere le storie che hanno portato le persone a scegliere il loro mestiere e a raccontare le esperienze più gioiose vissute facendolo. L’obiettivo è quello di identificare possibili piccoli cambiamenti da cui partire.

Parti con la tua gente, non con i tuoi problemi (Start with Your People, not Your Problem). Un buon modo di partire è pure quello di chiedere ai collaboratori “Cosa ti interessa ?” ed eventualmente “Cosa proponi al riguardo?”. Ovviamente i pareri e le opinioni vanno chieste, ma per essere utilizzati/e!

Lavorare “con” e non “per”: siamo tutti dalla stessa parte (Do “With” and not “For”). Questo è un passaggio fondamentale. Il rischio (anzi, la certezza) è che quando chiedi ai collaboratori cosa interessa loro verrà fuori fatalmente che manca il personale, la cartella informatizzata non funziona, etc. E questo equivale, dice il post, a ritrovarsi massi piuttosto che (ce l’hanno pure loro il piuttosto che, than!) ciotoli nelle scarpe. Questi segnali vanno raccolti, ma le persone vanno  motivate ad occuparsi di ciò che non ha bisogno di risorse esterne. Bisogna passare dal “Se ci dessero …” al “Cosa possiamo fare oggi?”. Insomma , se si passa dal loro (quelli che ci debbono dare qualcosa) al noi  (la nostra comunità professionale) siamo già a buon punto!

Condividiamo il potere (Share Power). La responsabilità va condivisa a tutti i livelli della organizzazione (leadership distribuita). In questa visione, la leadership è un insieme di funzioni sociali, non una posizione. E’ condivisa tra molte persone in un sistema ed è sostenuta dalla condivisione di risorse, competenze e autorità.

Non la voglio fare facile e mi rendo perfettamente conto che non è che con una semplice ricettina generica scaricata da internet che si affronta un tema così delicato come il benessere organizzativo. L’unico messaggio che mi sento davvero di dare è che si può provare a riportare la gioia nel lavoro di ogni giorno e che forse in alcune situazioni si deve.  Basta leggere i dati, vecchi e nuovi,  sul benessere organizzativo nelle nostre Aziende per rendersene conto.

PS Se guardate bene la foto vedrete che il post non ha colpito solo me! 

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