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Questo delle “nuove” mutue è davvero un argomento impegnativo. Tanto impegnativo che non riesco letteralmente a digerirlo, figuriamoci a raccontarlo in modo utile. Ciononostante l’argomento è importante e quanto meno vorrei provare a dare una mano a chi ha voglia di capirne di più. Nella prima parte  di questo “coso” ho preso spunto da un recente convegno di Cittadinanzattiva che ha affrontato il tema specie dal punto di vista degli economisti e di chi la materia la affronta in una ottica di tipo normativo. In quella occasione ho offerto un po’ di riferimenti sulle posizioni pro, su quelle contro e su quelle più tecniche. Oggi concludo cercando soprattutto di ragionare sulle considerazioni che sono alla base delle proposte di investire su queste forme di assistenza integrativa (le “nuove” mutue).

Cominciamo da un po’ di glossario e teniamo conto che muovendomi in un terreno che non mi è familiare potrei scrivere qualche sfrondone (grazie a chi avrà voglia di correggermi). Un aiuto mi viene da un esperto che è tra quelli che scrivono e parlano di più sul tema (Massimo Campedelli, presente anche al Convegno di Ancona) che ha pubblicato su una rivista disponibile online un contributo utile proprio in termini di glossario oltre che di inquadramento generale del tema della assistenza integrativa. Qualche estratto dal suo contributo:

A fianco del SSN (primo pilastro), ritroviamo la sanità categoriale (fondi chiusi) e le mutue sanitarie (fondi aperti), sopravvissute-riformate dopo la nascita del Ssn, nell’insieme il cosiddetto secondo pilastro. Il terzo pilastro sanitario è invece composto dalle forme sanitarie assicurative individuali o collettive (polizze offerte dalle aziende ai propri dipendenti come benefit di welfare aziendale).

Le fonti istitutive dei fondi sanitari sono molteplici: contratti e accordi collettivi tra le parti sociali, atti regionali e di enti territoriali, evoluzioni di enti non profit, in particolare società di mutuo soccorso, etc. Con le risorse gestite i fondi sanitari integrativi offrono prestazioni di tipo: complementare, già garantite dal Ssn, con forme di copayment (ticket e franchigie), o di rimborso diarie per ospedalizzazione o malattia; supplementare, non garantite dal Ssn, quali le spese odontoiatriche, oculistiche, etc.; sostitutive, erogate dal fondo attraverso convenzioni con produttori, già garantite dal Ssn ma rese così più facilmente fruibili ai propri soci (leggi: liste di attesa, scelta del professionista o delle strutture, orari di accesso, etc).

Non voglio aggiungere altro su queste diverse forme di integrazione al Servizio Sanitario Nazionale. Del resto per gli approfondimenti valgono i riferimenti già forniti col precedente post (uno per tutti: Piperno). Mi interessa invece tornare sui fenomeni che sono alla base dell’entusiasmo (a volte interessato, altre volte per così dire genuino) delle diverse forme di sanità integrativa. E cioè:

  1. il sistema sanitario è sottofinanziato;
  2. gli italiani si devono pagare le cure di tasca propria;
  3. gli italiani quando non possono pagare le prestazioni di cui hanno bisogno e che il SSN non gli dà rinunciano alle cure.

Cominciamo dal sottofinanziamento. La quantità di analisi fatte sul finanziamento della sanità in Italia (andamento nel tempo, confronto con gli altri paesi, ecc) è notevole. Per comodità rimandiamo al Rapporto GIMBE 2017 sulla sostenibilità del SSN. Una cosa è certa: rispetto ad altri paesi  la spesa pubblica in Italia è più bassa come percentuale dedicata del PIL. Seconda cosa certa: spesso è una spesa con buoni margini di miglioramento in termini di razionalità di impiego. Ma non è questo il punto oggi. Il punto è: in che modo il sottofinanziamento danneggia i cittadini?

E qui veniamo alla seconda domanda: quanto spendono di tasca propria gli italiani? E quanto i marchigiani, già che ci siamo? Per quanto riguarda gli italiani un buon riferimento è rappresentato  dai dati ISTAT  2012-2016. Ne viene fuori che  in Italia la spesa privata è il 25% di quella complessiva e che l’incidenza della spesa diretta delle famiglie rispetto al totale della spesa sanitaria presenta nel 2014 valori molto alti per Cipro (49,9%) e Bulgaria (45,8%); l’Italia, con un valore pari al 22,1%, si colloca al di sotto della Spagna (24,7%), ma molto al di sopra degli altri maggiori paesi dell’Unione europea (Francia 7%, Germania 13%, Regno Unito 14,8%). Invece la spesa sanitaria complessiva pro-capite in Italia è rispetto alla media degli altri paesi europei più bassa (proprio per il sottofinanziamento della sanità pubblica italiana).

Quanto ai dati per Regione (periodo 2014-2016) ci viene incontro una elaborazione per slide della Bocconi ripresa da Quotidiano Sanità che evidenzia come nelle Marche la spesa privata pro capite sia tra le più basse d’Italia. Quanto ai motivi di tale spesa le voci che pesano di più sono l’assistenza odontoiatrica seguita dalla assistenza residenziale, le prestazioni ambulatoriali e la spesa per farmaci e presidi.

Terza domanda: in quanti rinunciano alle cure per motivi economici? Qui c’è stata una grossa polemica lnel giugno del 2017  quando in un convegno RBM-CENSIS venne fuori un numero esorbitante di cittadini italiani che rinunciavano alle cure o si indebitavano per riceverne.  Tipo che 12,2 milioni di  italiani debbono ogni anno rinunciare alle cure. E allora gli epidemiologi (notoriamente per lo più di “sinistra” e orientati ad una sanità pubblica forte)  si sono scatenati  perché la stima fatta era come minimo metodologicamente fragile. Da questa nota degli epidemiologi ricaviamo questo commento:

Sono meno di cinque milioni, cioè meno della metà delle stime dichiarate, gli italiani che hanno rinunciato a una o più prestazioni sanitarie, corrispondenti al 7,8% della popolazione. Confrontando questo dato con le indagini gemelle condotte negli altri paesi, si scopre che la situazione italiana è sostanzialmente in linea con la media europea: Italia 7,8%, Svezia 9,2%, Francia 6,3%, Danimarca 6,9%, Germania 5,4%, eccetera (i valori sono riferiti al 2014 ed alla popolazione dai 16 anni in su aggiustata per età e genere sulla media europea). Dai dati simili dell’Indagine multiscopo Istat sulla salute (120mila interviste) risulta innanzitutto che la frequenza di rinunce è proporzionale al numero di prestazioni avute, e cioè che chi rinuncia a una prestazioni ne ha per lo più avute altre e quindi invece che di rinuncia alle cure si dovrebbe parlare di rinuncia a singole prestazioni.

Ma perché quella sovrastima di RBM Censis?
Perché la Società per Azioni RBM Salute è, per raccolta premi e per numero di assicurati, la più grande compagnia italiana specializzata nell’assicurazione sanitaria.

Recentissimi dati ISTAT confermano le ridotte (ancorchè preoccupanti) dimensioni della rinuncia alle cure per motivi economici da parte degli Italiani. A proposito delle liste di attesa l’ISTAT afferma che la rinuncia a visite o accertamenti specialistici per problemi di liste di attesa complessivamente riguarda circa 2 milioni di persone (3,3% dell’intera popolazione), mentre sono oltre 4 milioni le persone che vi rinunciano per motivi economici (6,8%).

Insomma non c’è un allarme rosso che impone un ricorso a forme di sanità integrativa come ciambella di salvataggio. Molto interessante al riguardo un documento della Rete Sostenibilità e Salute che così argomenta:

I motivi di insoddisfazione dei cittadini nei confronti del SSN per: prestazioni ritenute necessarie ma con lunghe liste di attesa, ticket elevati, prestazioni non garantite (assistenza odontoiatrica, cure domiciliari...) sono indubbiamente seri, anche se i media e un’insufficiente informazione agli assistiti da parte dei sanitari hanno spesso contribuito a drammatizzarli. Tuttavia, per come sono oggi in genere concepiti, i FS (fondi sanitari) sono fonte di:

1) iniquità per le agevolazioni fiscali concesse/pretese per chi vi accede, a scapito degli altri contribuenti. E tali agevolazioni, con il connesso minor gettito, si associano e contribuiscono di fatto al definanziamento del SSN;

2) induzione di consumismo sanitario, poiché non coprono solo servizi alberghieri/trasferte e le (poche) prestazioni integrative efficaci, ma anche prestazioni di efficacia non provata né probabile, che il SSN ha buoni motivi per non offrire (ma non osa scoraggiare in modo aperto);

3) paradossale aumento della spesa sanitaria pubblica, oltre che di (voluto) aumento della spesa sanitaria totale; e nessuna riduzione della stessa spesa sanitaria privata;

4) lungi dal dare sollievo, in base ai dati disponibili i FS rendono ancor più precaria la sostenibilità di un SSN...
4’) ... a maggior ragione perché, con la crescente offerta di prestazioni sostitutive, preludono a fuoriuscite dal SSN di chi versa più contributi e in proporzione costa meno (con più costi / meno risorse e protezione per chi resta).

Per concludere: sulle diverse forme di sanità integrativa ragioniamoci bene, molto bene!

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